Proprio alcuni giorni fa riflettevo su come ultimamente ci si sia adagiati ed accomodati nella convinzione e – soprattutto – nella presunzione che tutto ci sia dovuto e che il “grazie” sia diventato pertanto superfluo.
E riflettevo su questa cosa perché avevo da poco terminato una veloce telefonata con il mio medico curante, che avevo chiamato al solo scopo di ringraziare per avermi prontamente risolto un problema che mi torturava da mesi. Lui, inutile dirlo, era stupito poiché evidentemente disabituato a ricevere ringraziamenti per qualcosa che le persone ritengono essere un suo compito e dovere e per la quale non occorre dunque ringraziare.
Io sono del parere che dire “grazie” è davvero di una immensa semplicità e banalità per chi lo dice, ma è di enorme ricchezza e stima per chi lo riceve.
Io sono anche una di quelle che si ferma per far attraversare i pedoni sulle strisce e che in caso di incolonnamento lascia liberi gli incroci.
Ovunque vada dico “Buongiorno” e “Grazie mille, arrivederci e buona giornata!”.
Concludo le e-mail scrivendo “Ti auguro una splendida giornata”.
Insomma, cose così.
Nulla di eclatante, niente di straordinario ma solo ciò che a mio avviso dovrebbe essere la normalità.
Ed invece è diventata eccezione.
Come cantavano gli Articolo 31, ormai “L’impresa eccezionale è essere normale”.
Perché adesso succede che se ti fermi per far attraversare il pedone quello dietro di te sbraita e ti insulta perché sei lento e rincoglionito, se rispetti i limiti di velocità non sai guidare, se non trovi posteggio occupi quello riservato ai disabili e chissenefrega, al supermercato approfitti della cassa riservata a disabili e gestanti ma non li lasci passare se arrivano dopo di te ed hanno diritto di precedenza, se a scuola tuo figlio prende un brutto voto non ha sbagliato tuo figlio ma l’insegnante e magari lo meni pure o ti presenti a scuola con l’avvocato, se internet dice che quei puntini rossi sono varicella ma la dottoressa dice scarlattina è la dottoressa che sbaglia e allora torni a casa e scrivi su Facebook che quella lì non sa fare il suo lavoro e che cambierai medico invitando tutti a fare altrettanto.
Insomma, maleducazione e presunzione sono all’ordine del giorno.
Ed è proprio in questo clima che si colloca, seppur in maniera ironica e brillante, la commedia “Ma cosa ci dice il cervello” che vede Paola Cortellesi al cinema come poliedrica protagonista nel ruolo di Giovanna, un’impiegata del Ministero addetta alle buste paga la cui vita viene considerata scialba e noiosa, in primis dall’esuberante madre che non fa che punzecchiarla e criticarla.
Ma la verità è che la noiosa quotidianità è un copertura: Giovanna infatti è un agente segreto impegnato in pericolose missioni internazionali e la cui vita è dunque tutto fuorché noiosa.
Sarà grazie ad una rimpatriata tra vecchi ed affezionati compagni di liceo a movimentare la vita di Giovanna.
Scoperto infatti che ciascuno di essi è vittima, ognuno a modo suo, di continue vessazioni ed atti di bullismo, sfrutterà tutti gli strumenti in suo possesso per rimettere le cose a posto e render loro giustizia, non senza rischi per il suo lavoro e per la sua credibilità.
Un film divertente e pieno di ironia, che non manca però di spingerci a riflettere su quanto si siano persi di vista valori fondamentali come il rispetto e l’educazione.